22 Dicembre 2002: in partenza per le vacanze di Natale

Vi sto scrivendo dall’aeroporto di São Paulo, col portatile. Mi sento molto “executive” in questa situazione, ma la mia borsa vecchia e sporca e lo straccio di maglietta che indosso tradiscono subito le mie umili origini. Ieri ho lasciato Jaboticaba, in un giorno pieno di emozioni e anche un po’ di stress, visto che dovevo fare le valigie, sistemare cento cose prima della partenza, salutare un sacco di persone, svuotare e sbrinare il frigorifero, non dimenticarmi niente, ecc… Le emozioni sono state dovute alla cerimonia di conclusione dei ragazzi del terzo anno. È stata una cosa molto bella, iniziata con la Messa. I ragazzi si sono fatti il vestito tutti uguali, molto semplice, ma di grande effetto. Il giorno prima le ragazze erano già arrivate con enormi bigodini sulla testa per lisciare i capelli e alla cerimonia erano tutte splendide. Ogni studente è entrato accompagnato dal suo padrino o madrina. Sembrava una sfilata di moda perché per l’occasione ognuno sfoggiava il vestito più bello, molte ragazze madrine erano in abito lungo e sembravano delle principesse al ballo. Anche i genitori erano tutti in ghingheri, è il giorno più importante per loro e per i loro figli e si vestono come fossero principi, anche se quello che hanno indosso è l’unico vestito buono e quelle sono le uniche scarpe che non siano le ciabatte di plastica che portano ogni giorno. Quanta dignità in queste famiglie! Quanta voglia di dimenticare di essere poveri, almeno per un giorno. Poi finita la Messa è stata la volta dei discorsi, molta gente ha fatto gli auguri e le “raccomandazioni” ai ragazzi per il loro futuro. Mi hanno invitato a parlare, ma sul finire del discorso la commozione mi ha tradito e ho versato lacrimoni di nostalgia, che vergogna! Però sarà una di quelle cose che si ricordano, almeno per una settimana ci sarà gente che ne parla. Ogni padrino/madrina poi ha consegnato il diploma al suo studente e finalmente si è passati ai festeggiamenti. I ragazzi la sera prima avevano cucinato 500 pastel e 20 torte, il padre da Salvador aveva portato 20 bei pescioni e così la folla di amici e parenti si è riempita lo stomaco in allegria e io, con il vestitino della festa, mi sono ritrovata a distribuire il pesce e a togliere lische. Ma è già quasi ora di partire per Salvador. Corro a chiudere le valigie, vorrei mettere un po’ d’ordine in casa, ma non c’è tempo, lascio tutto all’aria, intanto tra meno di un mese sono di nuovo qui. Parto con un po’ di “saudade” e con la voglia di tornare. Decine e decine di abbracci e di auguri mi accompagnano, sento una grande rete di affetto e di attenzione per me, che nemmeno me la merito tutta! È la prima volta dopo quasi 6 mesi  che lascio il Brasile per tornare in Italia a passare le vacanze di Natale. Forse avrei voluto dire per tornare “a casa”, ma ieri tutte le volte che dovevo dire questa frase, mi rendevo conto che dire “tornare a casa” mi suonava stonato, perché sentivo che la mia casa adesso è a Jaboticaba. Invece che essere strafelice di rivedere Genova, c’era in me un fondo di malinconia per lasciare la mia casetta, gli amici-colleghi, Josenildo, la gente dei villaggi… E questo mi ha spaventata moltissimo. Se già adesso mi sento così, ora che vado via solo per 20 giorni, cosa succederà quando tra 1 anno e mezzo finirà il mio lavoro qui e tornerò definitivamente in Italia? Paura… paura… terrore, ma è presto e non ci voglio ancora pensare. A dire il vero qualche pensiero già si affaccia invadente nella mia testa. Lasciare tutto e vivere là nel sertão… Dio mio, quanta paura mi fa, ma c’è un fondo di attrazione, altrimenti questi pensieri non mi passerebbero per la testa. Cosa mi fa paura? Potrei dire la lontananza dalla famiglia… ma non è questo, o almeno non è il motivo più grande. Mi fa paura la povertà.  Mi terrorizza vivere con 150 euro al mese in un paese che non può offrirmi di più, in una regione dove mancano l’assistenza medica, gli svaghi, le infrastrutture. Ho paura della vita semplice e povera. Ma contemporaneamente mi attrae, perché nella vita semplice c’è l’autenticità, c’è più solidarietà, meno complicazioni. Noi ricchi abitanti del primo mondo siamo infinitamente tristi e depressi in confronto ai poveri, nonostante essi abbiano da preoccuparsi delle esigenze fondamentali della vita, come mangiare, avere un tetto sotto cui dormire e curarsi dalle malattie. Ma qui tra i poveri ho trovato quella felicità che in Europa sembra scomparsa, la semplicità di vita diventa anche semplicità di pensieri e sono finite le seghe mentali per problemi inesistenti che attanagliano il quotidiano di un qualsiasi italiano, sono finite le depressioni causate da inezie e i rapporti problematici con il prossimo. Forse sto vivendo una situazione privilegiata, in mezzo ai poveri del Brasile con possibilità da italiana, con la tranquillità che qualsiasi cosa di cui abbia bisogno me la potrò permettere. In questa situazione è più facile sentire la felicità e vedere le cose con gli occhiali rosa. Se venti pecore fossero l’unica mia ricchezza e stessero morendo di fame perché non c’è più un filo d’erba, e se avessi un figlio malato che non posso curare… forse non sarei qui a parlare di felicità come una ingenua viziata occidentale. Nonostante ciò resto convinta che la vita qua, nel sertão, sia più autentica e bella, gli abbracci della gente sono segni di vero amore, la cordialità e l’accoglienza incondizionata sono affetto vero. Beati voi poveri, perché vostro è il Regno dei Cieli, così parla Gesù Cristo nel discorso della montagna. Quante interpretazioni di questo passo si sono date. Oggi ne ho intesa una nuova, che è quella del significato letterale, che sempre mi era sembrata assurda.  Beati uguale felici, uguale invidiabili, per essere poveri, sì proprio così. Beati voi che siete nati poveri e vivete questa vita vera e ricca, sfortunata io che sono nata  ricca e non riesco a liberarmi della ricchezza, che mi rende triste e insoddisfatta. Il Regno di Dio sta in mezzo a voi, ma pochi se ne rendono conto. Forse neppure voi ve ne rendete conto, frastornati come siete da quello che mostra ogni giorno la televisione, la quale fa diventare assolutamente necessario il superfluo. Beati senza saperlo, magari anche voi con la vostra piccola maledizione di cercare la ricchezza pensando che sia la felicità. Ma un altro dubbio mi assale poi, che in un certo senso contraddice tutto quanto ho scritto finora: non sarà che fuggire verso i poveri per cercare la felicità sarà solo una fuga facile (?) dal grigiore dell’Europa, una fuga dall’affrontare le tristezze e i problemi del vecchio continente, una fuga dalla responsabilità di riportare il ricco Occidente alla coscienza della giustizia per  tutti i popoli? Lavorare per i poveri da dentro la culla dei ricchi è ben più difficile che lavorare nel sertão, mille volte più difficile e insoddisfacente. Ma bisogna che qualcuno lo faccia, altrimenti il solco già profondo tra noi e loro diventerà sempre più una voragine. Vincere la paura… È una sfida, un travaglio, dolore. E non so chi vincerà e come finirà.

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